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Catania: la nascita del Barocco e le radici di una città in perenne lotta con gli elementi.

Aggiornamento: 31 mag 2020


Catania, l'Etna visto dalla chiesa della Badia di Sant'Agata © gianluca baronchelli

L’Etna visto dalla chiesa della Badia di Sant’Agata

"Don Arcaloro, don Arcaloro, domani alli vintura... a Catania s'abballa senza sonu".

Narra la leggenda che alla vigilia dell’11 gennaio 1693 una strega avvisa così un nobiluomo locale del terremoto che avrebbe spazzato via Catania e la Val di Noto… domani alle due si ballerà senza musica. Il barone Arcaloro Scammacca Perna della Bruca e Crisciunà capisce, fugge e si salva. Ancora oggi vive, il barone, raffigurato in un quadro settecentesco di Salvatore Lo Presti mentre dal dipinto ci guarda, in ieratica attesa con un orologio nella mano destra.

C’è sempre una data, un evento, una cesura dalla quale bisogna partire per provare a capire una città. Nel caso di Catania - Catania greca, romana, bizantina, araba, spagnola, italiana… - la riga rossa dalla quale partire si dipana alle 13:30 di quell’11 gennaio 1693. È l’ora della scossa principale del sisma che distrugge la Sicilia orientale, l’evento di più elevata magnitudo della storia italiana, secondo per numero di morti solo a quello dello Stretto di Messina del 1908. I freddi numeri parlano di 45 centri abitati rasi al suolo oltre a innumerevoli villaggi, 7,4 gradi di magnitudo, 60.000 morti; solamente a Catania i morti sono 16.000 sui circa 20.000 abitanti. Catania non c’è più, Catania sembra sconfitta per sempre. Catania, che mai ha avuto paura, e che è sopravvissuta a innumerevoli eruzioni del suo gigante, l’Etna. Per capire l’assenza della paura di questa città, il suo fatalismo, basta guardarla dall’alto, vedere come si propende verso l’Etna anziché fuggirlo, quasi ad abbracciarlo cingendolo sino alle sue pendici, sino agli accumuli di lava, neri e contemporaneamente verdi di pistacchio.

Catania, la chiesa di San Benedetto in via dei Crociferi © Gianluca Baronchelli

La chiesa di San Benedetto in via dei Crociferi

Il terremoto, dicevamo, lascia in eredità ai governanti e ai pochi abitanti rimasti una tabula rasa. È il foglio sul quale dal 1693 e per tutto il secolo successivo viene disegnato il Barocco catanese.

Viceré della Sicilia è all’epoca Giovan Francesco Paceco duca di Uzeda, che decide di procedere con un progetto organico e un piano regolatore articolato. Affida a Giuseppe Lanza duca di Camastra l’incarico di vicario generale per il Val di Noto, e a giugno 1694 il piano generale è già pronto. A Catania, così come in tutta la Val di Noto, uno stuolo di architetti, da Giovanni Battista Vaccarini a Rosario Gagliardi, poi Vincenzo Sinatra e molti altri, danno nuovo corpo, materia e dimensione alla Sicilia orientale.

La scelta per Catania, dettata essenzialmente dall’opportunità di non abbandonare le vecchie fortificazioni, è quella di ricostruire sullo stesso sito. Vengono tracciati gli assi viari principali, e può così sorgere la nuova scenografia urbana.

Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia fatto dal 1953 al 1956 su incarico della Rai, così scrive di Catania: “Questo Barocco siciliano […] è diverso da tutti gli altri, e non si può confonderlo né con quello spagnolo né con quello chiamato coloniale. È solido nella struttura, ma tutto ricamato, direi trapunto, nelle finestre, nei balconi, nelle balaustre e le grate; ha capricci, fantasie, lirismi che si direbbero moreschi; ha romanticismi claustrali, delicatezze voluttuose. Viene da un popolo che esprime nel Barocco la propria indole, non in una fase del gusto, ma in tutta la propria storia. […] È insomma un Barocco non freddo, bensì vitale, ardente, ricco di sogno”.

Catania, la Chiesa di San Benedetto e la Chiesa di San Francesco Borgia in via dei Crociferi © Gianluca Baronchelli

La Chiesa di San Benedetto e la Chiesa di San Francesco Borgia in via dei Crociferi

È via dei Crociferi una delle massime espressioni di questo Barocco, e uno dei posti migliori per sedersi sui gradini di una chiesa per rileggere queste pagine. Andrebbe scoperta alle prime luci del mattino o la sera, mentre il sole ancora illumina la sommità di palazzi e chiese e gli acciottolati si ritirano in ombra. Percorretela tutta, lentamente, partendo dall’arco di San Benedetto. Sulla sinistra, gli edifici affiancati della chiesa di San Benedetto, imperdibile per i suoi stucchi e i ricchissimi interni, e di San Francesco Borgia, con la sua scalinata a doppia rampa. Poco oltre, la chiesa di San Giuliano, realizzata dal Vaccarini tra il 1739 e il 1751, con la sua facciata convessa e l’imponente cupola, dalla quale si abbraccia tutta la via e si spazia da Sant’Agata all’Etna.

Catania, il Monastero dei Benedettini Cassinesi di San Nicolò l’Arena © Gianluca Baronchelli

il Monastero dei Benedettini Cassinesi di San Nicolò l’Arena

Uno dei luoghi ove si mescolano la Catania del “prima” e la Catania del “dopo”, forse il più intriso dal genius loci di questa città, è il complesso del Monastero e della Chiesa dei Benedettini Cassinesi di San Nicolò l’Arena. Sorge su quello che è stato il primo nucleo di Katane, la Catania antica fondata secondo Tucidide nel 729 a.C. dai greci calcidiesi salpati da Naxos.

Fondato dai monaci cassinesi nel 1558, più volte distrutto e ricostruito, il monastero è un libro aperto sulla storia della città. Oggi si presenta come un gioiello del tardo Barocco, ma conserva al suo interno resti di edifici di età greca arcaica e di due domus romane con pavimenti mosaicati e pareti affrescate, visibili nel seminterrato un tempo adibito dai monaci a magazzini alimentari. Conserva, soprattutto, le imponenti tracce dell’eruzione del 1669.

È l’8 marzo. Esplosioni, scosse sismiche, boati, un’altissima colonna di fumo. La lava comincia a uscire da due nuove e profonde fenditure. Pare non volersi arrestare più, e un mese e mezzo dopo raggiunge la cinta muraria della città. San Nicolò l’Arena è cinto d’assedio, ma il monastero si salva. Oggi, scendendo nelle antiche cucine dei monaci benedettini possiamo vedere i fiumi sotterranei di lava solidificata. Ma è passeggiando nel giardino dei Novizi, il cortile pensile realizzato sull’enorme banco di lava – oltre 12 metri - che qui giace dal 1669, è attardandoci tra le piante e gli alberi di quest’oasi di tranquillità che meglio si coglie lo spirito e la volontà di rinascita di questo angolo di mondo.


Catania, il chiostro di Ponente del Monastero dei Benedettini Cassinesi di San Nicolò l’Arena © Gianluca Baronchelli

Il chiostro di Ponente del Monastero dei Benedettini Cassinesi di San Nicolò l’Arena

Dopo l’eruzione del 1669 e soprattutto dopo il terremoto del 1693, che lascia in vita tre soli monaci, a partire dal 1702 inizia la ricostruzione. Del Monastero cinquecentesco si sono salvati il piano interrato, una porzione del primo piano e solamente 14 colonne del chiostro. I maggiori architetti siciliani dell’epoca, tra i quali Giovanni Battista Vaccarini che ridisegna le cucine e il Refettrio Grande e progetta la Biblioteca, concorrono alla sua rinascita. San Nicolò l’Arena diventa uno dei più grandi monasteri d’Europa, secondo solo a quello di Mafra, in Portogallo, per l’ordine Benedettino. Il Chiostro dei Marmi viene rinnovato con elementi tardobarocchi, sorgono il Chiostro di Levante, il Caffeaos in stile eclettico, il Giardino dei Novizi, l’orto botanico, e ancora la biblioteca, le nuove cucine e tutti gli spazi destinati alla vita in comune dei monaci.

È in questo monastero che si svolgono alcune delle pagine più belle dei Viceré, il romanzo affresco del risorgimento siciliano che Federico De Roberto ha ambientato nella sua Catania tra il 1855 e il 1882. Oggi il complesso è sede della facoltà di Scienze Umanistiche, e studenti e professori battono gli stessi passi dei monaci prima, e poi dei militari, quando il complesso è stato adibito anche a caserma dopo l’unità d’Italia.

Catania, la Chiesa di San Nicolò l’Arena © Gianluca Baronchelli

La Chiesa di San Nicolò l’Arena


Il fascino dell’incompiuto: anche questo è specchio profondo di una certa Catania. La chiesa di San Nicolò l’Arena, affiancata al monastero e affacciata su piazza Dante, voleva essere la San Pietro di Sicilia, la chiesa più grande dell’Isola. La costruzione inizia nel 1687, ma prima il terremoto del 1693, poi le difficoltà tecniche legate alle imponenti dimensioni non consentono di ultimarne l’assetto. Eppure proprio questa incompiutezza, le quattro possenti colonne tronche in calcare, le torri in pietra lavica che ancora aspettano di sorreggere un timpano mai edificato le donano una forza e un fascino assolutamente unici. È bello incontrarla la sera, quando gli abitanti del quartiere si raccolgono sul sagrato, ciascuno portandosi la sua sedia, e da lì osservano – e commentano – il fluire delle cose.

Catania, l’elefantino e la Cattedrale di Sant’Agata in piazza Duomo © Gianluca Baronchelli

L’elefantino e la Cattedrale di Sant’Agata in piazza Duomo

Piazza Dante, l’antica acropoli di Katane, e Piazza Duomo, il cuore della Catania di oggi, sono separate da 800 metri di piacevole discesa. Disegnata immediatamente dopo il terremoto del 1693 sull’area della medievale platea magnapiazza Duomo racchiude, come era al tempo doveroso, le sedi del potere ecclesiastico e civile. Qui vi attendono ‘u Liotrue ‘a Santuzza.

‘U Liotru è il nome dell’elefantino simbolo e talismano di Catania sin dall’antichità. Scolpito in un unico blocco di pietra lavica, durante il terremoto del 1693 ‘U Liotru perde le zampe posteriori. Ci guadagna però le zanne bianche e gli occhi, grazie al restauro del Vaccarini, chiamato a ricostruire le zampe in vista del posizionamento sulla nuova fontana da luistesso progettata. È incerto il periodo nel quale ‘u Liotruvede la nascita: per il geografo arabo del XII secolo Idrisi va fatto risalire alla dominazione cartaginese o bizantina. Di sicuro, quando Idrisi giunge a Catania l’elefante è già all’interno delle mura cittadine, probabilmente portatoci dai monaci benedettini di Sant’Agata. Diventa simbolo della città nel 1239, ed è incerto anche il legame dell’elefante con Catania. Molte sono le leggende, da quella di un elefante che avrebbe cacciato gli animali feroci durante la fondazione di Katane, al mito dei ciclopi, che il viaggio di Ulisse colloca proprio da queste parti. I paleontologi, in effetti, ci raccontano che qui era particolarmente diffusa una razza nana di elefanti, poi estinta. I ritrovamenti di numerosi teschi di questi elefantini, con l’enorme foro occipitale al centro, potrebbero aver effettivamente alimentato il mito di giganti con un occhio solo.

Comunque stiano le cose, ‘u Liotru non è solo nel difficile compito di proteggere Catania, ma può contare sull’aiuto della santuzza, ovvero di Sant’Agata.

Catania, festa di Sant’Agata, l’ingresso dei Cannalori in piazza del Duomo © Gianluca Baronchelli

Festa di Sant’Agata, l’ingresso dei Cannalori in piazza del Duomo

Nata intorno al 230 d.C., catanese di origini patrizie, oggetto delle attenzioni del proconsole Quinziano, si rifiuta di ripudiare la fede cristiana e muore in carcere, poco più che ventenne, dopo numerosi supplizi, il 5 febbraio 251. Protettrice della città, è oggetto di una profondissima devozione che dura tutto l’anno ma che ha i suoi culmini nella festa che va dal 3 al 5 febbraio e in quella del 17 agosto, quando si ricorda il ritorno delle spoglie della Santa in città dopo il trafugamento da Costantinopoli.

Parte integrante delle celebrazioni è la tradizione dei cerei o cannalori, grosse costruzioni in legno, scolpite e dorate in superficie, secondo il più tradizionale stile barocco siciliano, dal considerevole peso che può andare dai 400 agli oltre 800 chili. Rappresentano le arti delle corporazioni e dei mestiri della città, e vengono portati a spalla per le vie del centro da un numero variabile di devoti, da quattro a dodici, con la caratteristica andatura detta ‘a ‘nnacata, sospinti dalle note delle bande cittadine. Il catanese lo sa, e il turista deve farci molta attenzione: la cera persa dai cannaloridurante le processioni trasforma le strade, soprattutto quelle in pendenza, in vere e proprie trappole per l’equilibrio dei pedoni e l’aderenza di macchine e degli onnipresenti scooter.

Catania, il Teatro Romano © Gianluca Baronchelli

Il Teatro Romano

Èil momento di varcare idealmente la linea rossa dell’11 gennaio 1693 che ha fatto partire questo racconto dal terremoto e dalla rinascita barocca di Catania, facendo un balzo all’indietro di 15 secoli. Risalgo da piazza Duomo per via Vittorio Emanuele II, verso il teatro Romano. Quasi non te ne accorgi, della sua presenza, devi varcare il portone del civico 266 per trovarti catapultato in questo antico gioiello incastonato tra edifici ottocenteschi. Sorto a ridosso del preesistente teatro greco, e ancora chiamato tiatru grecudai catanesi, ci mostra oggi il suo aspetto del II secolo d.C. Sono ancora ben visibili e conservate la cavea, con i suoi settemila posti stimati per un diametro di 80 metri, l’orchestra e alcune parti della scena. Completamente spogliato dei suoi marmi già nell’XI secolo, utilizzati anche per la costruzione della Cattedrale di Sant’Agata, ha costituito per tutti i secoli seguenti cava prêt-à-porterdi fregi, bassorilievi, colonne ed elementi architettonici di reimpiego, fino alla ricostruzione barocca della città.

Catania, le Terme Romane della Rotonda © Gianluca Baronchelli

Le Terme Romane della Rotonda

Nel VI secolo sono i bizantini a conquistare Catania, e da subito adattano a usi religiosi alcuni edifici romani. È il caso delle terme della Rotonda, che si raggiungono attraversando via del Teatro Greco, e devono il loro nome all’aula centrale circolare sormontata dalla grande cupola a tutto sesto ancora oggi visibile. Sulla pianta del precedente edificio termale viene eretta la chiesa di Santa Maria della Rotonda, che sopravvive miracolosamente al terremoto del 1693, e conserva ancora oggi resti dell’originale pavimento mosaicato e lacerti degli affreschi bizantini alle pareti.

Catania, il Castello Ursino © Gianluca Baronchelli

Castello Ursino

È il XIII secolo quando Federico II di Svevia inizia la costruzione del castello Ursino, tra il 1239 e il 1250. Pianta perfettamente quadrata, mura con due metri di spessore, quattro possenti torrioni cilindrici e due torri semicilindriche addossate ai lati nord e ovest ne fanno un caposaldo della linea difensiva costiera meridionale della Sicilia, insieme a Siracusa e Augusta, oltre che un simbolo del potere svevo, in una città che in verità non ha mai amato troppo Federico e il suo casato. Deve il suo nome alla derivazione da Castrus Sinus, castello del golfo, e anche lui, come tutta Catania, fa i conti con l’eruzione del 1669. La lava giunge a lambirlo il 16 aprile, un mese dopo la prima eruzione. Le mura sono salve, ma vengono colmati i fossati, coperti i bastioni, e il castello perde l’affaccio al mare, con la linea costiera spostata di centinaia di metri. Il terremoto del 1693, pur sostanzialmente risparmiandolo, ne compromette definitivamente la funzione militare. Continua comunque a ospitare le guarnigioni prima piemontesi, poi borboniche, mantenendo la sua funzione di carcere fino al 1838.

Una babele di lingue, dal latino al siciliano, dallo spagnolo a forme miste, accompagna le tantissime iscrizioni – la più antica risale al 1526 – e i disegni lasciati dai carcerati su muri e stipiti del piano terra. Professione di innocenza, simboli religiosi, massime filosofiche e ritratti di chi, nel bene e nel male, i carcerati si auguravano di poter prima o poi ritrovare, fuori da lì…

Catania, la Badia di Sant’Agata vista dalla Chiesa di San Giuliano © Gianluca Baronchelli

La Badia di Sant’Agata vista dalla Chiesa di San Giuliano

La flânerieche inevitabilmente coglie chi passeggia per Catania facilmente vi porterà nuovamente in via dei Crociferi. La cupola della chiesa di San Giuliano è allora un punto preferenziale per tener d’occhio l’Etna ma, soprattutto, per volgere lo sguardo a sud est e abbracciare la Badia di Sant’Agata, anch’essa opera di Giovanni Battista Vaccarini, e appena più in là il mare e il porto di Catania.

Grandi navi da crociera, cargo, pescherecci, imbarcazioni da diporto in tutte le declinazioni che vanno dal lusso al guscio di noce. Il rapporto di Catania col mare è saldo, antico, forte e conflittuale. E dal mare non può che venire, in copiosa quantità, il pesce, alimento principe delle tavole e dei mercati della città.


Catania, ‘a Piscarìa, il mercato del pesce © Gianluca Baronchelli

‘A Piscarìa, il mercato del pesce

Già, il mercato. A due passi da Sant’Agata, racchiuso tra piazza Di Benedetto e piazza Pardo e sotto la porta di Carlo V, unica a essersi salvata tra le sette antiche porte cinquecentesche di accesso alla città, rivive ogni mattina ‘a piscarìa, l’antico mercato del pesce di Catania. L’atmosfera è quella dei suqnordafricani e mediorientali: la vuciatadi venditori e compratori, il battere ritmico e ipnotico dei coltelli sui taglieri, le abbanniate, grida improvvise con le quali venditori e pescatori promuovono il loro prodotto. Qui la spesa è anche e soprattutto affare da uomini, che con sguardo attento, poche parole e cenni minimi ma decisi comunicano la propria scelta al pescatore.

Catania, il mercato in via Gisira © Gianluca Baronchelli

Il mercato in via Gisira

Il mercato prosegue e si allunga su via Pardo, via Gisira, via Rizzoli. Il pesce lascia il posto ad altri alimenti, e va in scena la quasi infinita tavolozza di quanto il territorio ha da offrire: sui banchi si alternano e rincorrono olive, capperi, pomodori secchi, origano, pistacchi, erbe e ogni sorta di spezie. E ancora verdure e frutta, formaggi, carni… se la fame dovesse giungere improvvisa, non c’è problema: lo street food regna sovrano a Catania, e massimamente in questa zona. Dolce o salato, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Perché la cucina, a Catania, si lega indissolubilmente alla sua storia.

Catania, l’Etna visto dalla Badia di Sant’Agata © Gianluca Baronchelli

L’Etna visto dalla Badia di Sant’Agata

Sono evidenti le tracce gastronomiche delle varie dominazioni di Catania immergendosi nelle vie e nei locali della città. A partire dall’arancino, principe incontrastato di questa terra. La sua invenzione si perde lontano, lontanissimo, e poco sappiamo delle sue origini. Si fanno comunemente risalire al periodo della dominazione araba, per la presenza dello zafferano e per l’abitudine araba di comporre nel palmo della mano polpette di riso, zafferano appunto, erbe e carne d’agnello, mangiandole direttamente così. La panatura, aggiunta successivamente, è un lascito dei cuochi di Federico II di Svevia, introdotta come sistema per conservare l’arancino nel sapore ma soprattutto nella forma, in occasione di viaggi e battute di caccia. Origine araba ha anche la granita, dallo sherbet, ghiaccio aromatizzato con acqua di rose o succhi di frutta. Sin dal medioevo i nivaroli si occupavano del reperimento della neve sull’Etna e sui monti circostanti, conservandola poi nelle neviere per farla scendere in città durante l’estate.

L’antenato del cannolo, altro mustdi queste terre, è noto già in epoca romana, per poi venir perfezionato dai pasticceri arabi e definitivamente introdotto nelle abitudini alimentari dal X-XI secolo.

Ma per immergersi davvero nelle abitudini gastronomiche dei catanesi, non può mancare una passeggiata a via Plebiscito, la domenica a pranzo o in una qualunque serata: uno dietro l’altro, una teoria infinita di locali, secondo la migliore tradizione dell’”arrusti e mancia”, che nei nomi ricordano tutta la nobiltà spagnola tra re, principi, duchi, baroni, senza dimenticare vescovi, sante e zie. Qui, pazientemente in attesa del proprio turno, intere famiglie e gruppi allargati di ogni tipo si intrattengono pregustando il rito della carne di cavallo alla brace (non fatevi mancare le polpette!), della cipollata e delle stigghiole. Se non sapete di cosa stiamo parlando… provate tutto!

Un ultimo sguardo dall’alto, dalla chiesa della Badia di Sant’Agata, ci premette di abbracciare idealmente Catania e il grande lascito di greci, romani, bizantini, arabi, spagnoli… l’Etna controlla tutto, pare che dorma, e volentieri lo lascio così, con la città che si protende verso di lui e lo cinge. Con fatalismo, senza paura. Tanto, ci pensano ‘u Liotrue ‘a Santuzza


[testi e fotografie © Gianluca Baronchelli / National Geographic Italia]

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