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Plovdiv, Capitale (non solo) Europea della Cultura 2019

Aggiornamento: 31 mag 2020


Il teatro romano di Plovdiv © Gianluca Baronchelli

Il teatro romano di Plovdiv

Gatti. Meravigliosi gatti ovunque. Forse perché hanno sette vite, come sette sono i colli su cui poggia questa antichissima città. O, forse, i gatti di Plovdiv sono l’ultimo lascito dell’impero ottomano, qui ancora riconoscibile, molto più che a Sofia o nel resto della Bulgaria, tra impianto urbano, abitudini e architetture. Sette, e più, sono anche le vite di questa antichissima città. La cosa non ci stupisce, se ci prendiamo la briga di guardare la sua posizione su una carta geografica, e se facciamo lo sforzo di sovrapporla a una mappa antica.

Il puntino rosso cade su una delle più importanti vie di comunicazione tra Occidente e Oriente, a soli quattrocento chilometri da Bisanzio, o Costantinopoli, o Istanbul, a seconda della mappa che avete sottomano.

Plovdiv è più antica di Roma, più antica di Atene; coeva di Troia e di Micene, porta con fierezza i suoi oltre settemila anni di storia, di ferite e di cicatrici, il ricordo dei suoi molti nomi: Eumolpia, Filippopoli, Pulpuveda, Trimontium, Plovdiv, Filibe, poi di nuovo Plovdiv. Ricorre il sette, come le sue vite, e quelle dei suoi gatti…

Ma Plovdiv vuole andare oltre, e quest’anno si è regalata una nuova vita: insieme alla nostra Matera è stata eletta Capitale della Cultura 2019 con oltre 300 iniziative e 500 eventi ideati sotto il claim “Together” (insieme), un’idea universale che prende spunto e forza proprio dalla sua millenaria eredità storica e culturale.


Plovdiv: Il Nebet Tebe, il colle su cui sorge il primo nucleo fortificato dell’antica Eumolpia © Gianluca Baronchelli

Il Nebet Tebe, il colle su cui sorge il primo nucleo fortificato dell’antica Eumolpia

Il primo gatto mi si fa incontro al mattino presto, sul Nebet Tepe, il colle dove attorno al 5000 a.C. sorge il primo nucleo fortificato di Eumolpia a opera dei Traci. Sarà Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, a compiere il primo significativo allargamento del nucleo urbano, ribattezzando la città Filippopoli nel 342 a.C. Dunque non posso che chiamare Filippo questo primo gatto, infinitamente più espansivo del tassista che, complice forse l’ora antelucana, mi ha accompagnato quassù grugnendo… Filippo risulta così espansivo che mi corre l’obbligo di dividere con lui la canonica banitzapresa per colazione. Da quassù il panorama è splendido: abbracci chiese, moschee, eleganti palazzi e resti archeologici, il filo aggrovigliato dei vicoli si nasconde mentre lo sguardo viene calamitato da un orizzonte scansito da bloc sovietici, grattacieli e colline.

Plovdiv: Ulica Saborna, la strada che attraversa la città vecchia collegandola al Nebet Tebe © Gianluca Baronchelli

Ulica Saborna, la strada che attraversa la città vecchia collegandola al Nebet Tebe

È impossibile non passare da Ulica Saborna per salire al Nebet Tebe e poi per ridiscenderlo. È il cuore della città vecchia, riportato al suo aspetto tardo Ottocentesco dopo lunghi restauri.

La città vecchia custodisce tracce di epoca tracia, romana, bizantina e, ovviamente, bulgara. A differenza di Sofia, capitale del Paese, qui però è ancora possibile riconoscere aspetti riconducibili ai cinquecento anni del periodo ottomano, soprattutto nella toponomastica e nell’assetto viario. Le città ottomane erano divise in mahali, quartieri distinti per etnia, e mancavano di un’amministrazione centrale. L’aspetto era profondamente caotico, con edifici in legno affastellati senza ordine apparente, e strade strette e tortuose che ricordano molto da vicino quelle che possiamo vedere ancora oggi qui e nel confinante quartiere di Kapana, che significa letteralmente “trappola”.

Dopo la guerra russo-turca del 1877, con la fine del dominio Ottomano nel 1878, Sofia decide di dotarsi di un piano regolatore moderno, varato nel 1881, che strizza l’occhio ai modelli europei. Interi quartieri vengono rasi al suolo, e si opta per quello che allora era detto “modello americano”, progettato su strade dritte e parallele che si intrecciano perpendicolarmente. Insomma, il vecchio modello di cardi e decumani degli accampamenti e delle città romane… Plovdiv all’epoca è però ancora turca, in base alle decisioni del congresso di Berlino, e si riunirà al nuovo stato bulgaro solamente nel 1885.

Plovdiv: l’edificio che ospita il museo della Rinascenza bulgara, con il suo tipico stile architettonico © Gianluca Baronchelli

L’edificio che ospita il museo della Rinascenza bulgara, con il suo tipico stile architettonico

Da questo momento anche a Plovdiv decolla definitivamente il lungo periodo di rinnovamento, anche architettonico, iniziato verso la metà del secolo, che prende il nome di Rinascenza bulgara (o Risveglio nazionale): così come nei libri di storia, anche nell’archittettura si cerca di saltare a piè pari cinque secoli di storia. A differenza di Sofia però non vengono rasi al suolo i quartieri, ma si punta a una ricostruzione mirata degli edifici collegandosi, all’inizio, a un carattere medievaleggiante. L’architettura diventa quindi un mezzo fondamentale per affermare il senso di appartenenza culturale e nazionale. Oltre ai canoni e agli stilemi neo-bizantini è forte la riscoperta del patrimonio architettonico del recente passato, in particolare dei centri minori della Bulgaria. Nascono così i numerosi edifici, perlopiù ricche dimore private, caratterizzati dal piano superiore aggettante, cornicioni sporgenti, facciate spesso tripartite e dipinte a colori sgargianti, preziosi interni e soffitti in legno intarsiato con giardini curatissimi che vanno sotto il nome di “barocco di Plovdiv”.

Plovdiv: la porta medievale di Hisar Kapija © Gianluca Baronchelli

La porta medievale di Hisar Kapija

È bello perdersi nella città vecchia, seguire i gatti anziché la mappa, per ritrovarsi di fronte alla casa di Argir Kojumdzoglu, ricco mercante turco della metà Ottocento, oggi trasformata in museo etnografico. O alla kāšta Georgiadi, sede del museo della Rinascenza Bulgara, l’antica Apteka Hippokrat, la farmacia di Ippocrate del dottor Sotir Antoniadi, e ancora la casa di Stepan Hindliyan, o quella di Nikola Nedkovich…

Vi capiterà, in questo gioco dell’oca, di ripassare dalle stesse caselle, e di ripassare sotto Hisar Kapija, una delle tre porte antiche della città, sorta nel II secolo, rinforzata da Giustiniano nel VI secolo, riadattata durante il secondo impero bulgaro nel XII e XIII secolo, e presente, anche se non più così strategica, durante tutto il periodo ottomano, dal quale le deriva il nome attuale. Testimone silente del tempo che passa e delle dominazioni che si avvicendano, nella seconda metà dell’Ottocento Hisar Kapija fornisce spalla e appoggio alle abitazioni di ricchi mercanti e notabili bulgari, greci, turchi, ebrei e armeni, in un crogiuolo di razze e religioni che da sempre costituiscono una delle ricchezze di Plovdiv.

Il teatro Romano di Plovdiv © Gianluca Baronchelli

Il teatro Romano

Davanti al teatro romano una famiglia sentenzia, con fare furbesco, che non ha senso pagare il biglietto d’ingresso dal momento che si vede già tutto da lì. Sarà, ma l’idea di una passeggiata in solitaria in questo gigante da oltre 6.000 spettatori, nato quando la città si chiamava Trimontium e riportato alla luce casualmente negli anni Settanta del secolo scorso mi sembra troppo ghiotta per rinunciarvi. Summa cavea, media cavea, ima cavea. La discesa è completata: sul proscenio mi aspetta l’ennesimo gatto, piuttosto indolente e disinteressato. Vorrei chiamarlo Traiano, come l’imperatore che ha edificato il teatro tra il 114 e il 117. Ma il muso e il colore mi fanno propendere per Nerone, che pure con i teatri qualche dimestichezza l’aveva…

Plovdiv: lo stadio Romano e la moschea di Džumaja © Gianluca Baronchelli

Lo stadio Romano e la moschea di Džumaja

Una delle viste più affascinanti su Plovdiv e sulla sua millenaria storia probabilmente ce la regala piazza Džumaja: nel punto esatto in cui si congiungono la città vecchia, Kapana e la città nuova, con uno sguardo si abbracciano i resti dello stadio romano e la moschea di Džumaja. Costruito sotto l’imperatore Adriano agli inizi del II secolo, pare potesse contenere fino a 30.000 spettatori, con una lunghezza di 240 metri che ne faceva la più grande struttura pubblica dell’impero romano costruita nei Balcani. Utilizzato per i giochi atletici e per le corse con i carri, ha ospitato i giochi organizzati in occasione delle visite degli imperatori Caracalla nel 214 e Eliogabalo nel 218. Ne vediamo, oggi, un piccolo pezzo, la curva settentrionale (chissà se all’epoca gli ultras la chiamavano curva nord…) con i suoi 14 ordini di gradoni in marmo, mentre il resto della struttura corre e giace sotto a Ulica Knyaz Alexander I.

Plovdiv: l’interno della moschea di Džumaja © Gianluca Baronchelli

L’interno della moschea di Džumaja

La moschea di Džumaja è una delle più antiche moschee oggi presenti nei Balcani. La sua costruzione inizia subito dopo l’ingresso dell’esercito ottomano in città, ribattezzata Filibe, nel 1363-64, sul sito di una precedente chiesa. Sotto il regno di Murad II, tra il 1421 e il 1551, la prima moschea viene abbattuta per far posto alla moschea attuale, singolare miscellanea di stile arabo, bizantino e antico bulgaro: una doppia fila di mattoni rossi intervalla orizzontalmente gli strati di pietra, le cupole sono nove, ricoperte da fogli di piombo, e il minareto è decorato da un doppio motivo geometrico in mattoni rossi e stucco bianco. Azzurro, giallo e rosso prevalgono nelle decorazioni floreali degli interni con rami, fiori e ghirlande tra i classici medaglioni con citazioni del Corano. Il caffè sotto la moschea è un piccolo angolo di Istanbul dimenticato a Plovdiv: i dolci, il caffè turco, l’immancabile chaĭ - il tè servito nei classici bicchierini trasparenti – le facce e la gestualità degli avventori a ridosso della preghiera del mattino riportano a un passato difficilmente, e forse inutilmente, cancellabile.

Plovdiv: la chiesa dei Santi Costantino e Elena © Gianluca Baronchelli

La chiesa dei Santi Costantino e Elena

Chiese cattoliche, ortodosse, sinagoghe e moschee. Da sempre, qui a Plovdiv, accolgono i fedeli l’una accanto all’altra, in questo crocevia tra Occidente e Oriente sulla via di Istanbul. Together, appunto, come recita il claimscelto per la Capitale della Cultura.

Tra le più suggestive, la chiesa dei Santi Costantino e Elena. Risale, così come la possiamo vedere oggi, al 1840, ma sorge su uno dei luoghi più carichi di storia della città, a due passi da Hisar Kapija, ove nel 304 vengono martirizzati per la loro fede cristiana Severino e Memnos. Qui, trent’anni dopo, viene edificato il primo tempio, a loro dedicato. Più volte distrutto e riedificato, arriviamo al piccolo gioiello completato tra il 1832 e il 1840. La parte più recente dell’iconostasi è opera del principale pittore della Rinascenza bulgara, Zahari Zograf, ma sono ben conservate anche le scene e figure risalenti al XIV e XV secolo.


Plovdiv: la chiesa armena di Surp Kevork © Gianluca Baronchelli

La chiesa armena di Surp Kevork

250 metri, risalendo verso il Nebet Tebe, mi separano dalla chiesa armena di Surp Kevork. Originariamente dedicata a San Giorgio e al culto ortodosso, nel 1767 passa alla diocesi armena. Dal 1920 la chiesa accoglie le urne e le reliquie salvate dai profughi armeni sfuggiti al genocidio turco del 1915 e dalla guerra greco-turca del 1919-22, provenienti dalle chiese e dai monasteri di Edirne, Çorlu e Tekirdağ.

Plovdiv: la chiesa di Santa Marina © Gianluca Baronchelli

La chiesa di Santa Marina

Procedendo in discesa verso sud e aggirando il teatro romano, meno di ottocento metri e le molte facciate colorate dei palazzi della Rinascenza bulgara mi accompagnano alla chiesa di Santa Marina. Il primo nucleo di questa chiesa, probabilmente dedicato a San Paolo, viene fatto risalire al V secolo. Distrutta una prima volta verso la fine del VI secolo, non ha successivamente vita semplice: cancellata da un incendio verso la metà del Settecento, riedificata nel 1783 con il metropolita Cirillo, si giunge al sua attuale aspetto nel 1851-54. È del 1870 il suo isolato e particolarissimo campanile in legno. Lo stile è quello tipico della Rinascenza bulgara, con tre navate separate da una doppia fila di colonne a sorreggere archi a tutto sesto. Ama il sole alto, Santa Marina, oppure il buio quasi assoluto. Entrateci quando è inondata dalla luce che filtra dai finestroni, o all’imbrunire, quando il sole si è già nascosto: il blu intenso delle pareti, l’oro delle decorazioni e il marmo dei pavimenti e delle colonne regalano effetti e percezioni dello spazio diversissimi tra loro, e proprio per questo affascinanti.

I mosaici romani della domus di Eirene a Plovdiv © Gianluca Baronchelli

I mosaici romani della domus di Eirene

In una città dalle sette vite spazio e tempo hanno una dimensione diversa: ti basta girare l’angolo, percorri 170 metri e vieni proiettato in un’altra epoca; è quello che puntualmente accade a Plovdiv. Indietro ancora, dunque, ai tempi di Trimontium, alla scoperta della casa di Eirene al centro culturale Trakart. Gli scavi degli anni Ottanta del secolo scorso hanno portato alla luce il peristilio di una estesissima domusromana, che occupava una intera insula. Una delle iscrizioni dei mosaici ci svela il nome del proprietario della domus, Desiderio, mentre l’immagine di una donna, Eirene o Irene, la dea greca della pace figlia di Zeus e Temi, ha regalato il nome alla domus stessa. Il delicato ritratto a mosaico è realizzato in opus vermiculatum, tecnica tra le più fini e di difficile utilizzo, riservata alle parti più importanti delle composizioni musive. Per accentuare ogni sfumatura e passaggio tonale, e per creare ombreggiature naturali, si usano tessere asimmetriche estremamente minute, che possono raggiungere l’incredibile densità di 60 pezzi per centimetro quadrato.

Plovdiv: il murales di Georgi Bozhilov al confine tra la città vecchia e il quartiere di Kapana © Gianluca Baronchelli

Il murales di Georgi Bozhilov al confine tra la città vecchia e il quartiere di Kapana

Dal mosaico di Eirene al murales di Georgi Bozhilov, che segna il confine tra città vecchia, zona moderna della città e Kapana. È ora di avventurarsi nella trappola. Sì, perché il quartiere di Kapana, uno dei più antichi e suggestivi, letteralmente significa proprio questo: un quartiere dove, cinquecento anni fa come oggi, perdersi è più semplice che ritrovarsi. In molti sensi. Il nome deriva dal fitto dedalo di stradine e vicoli, in epoca ottomana sede di moltissime botteghe e artigiani, con la toponomastica che si rifà ancora decisamente a quel periodo, tra le sue vie degli orefici, dei fabbri, dei conciatori… Oggi, proprio in occasione dell’assegnazione del titolo di Capitale della Cultura, la zona è stata quasi interamente pedonalizzata e riqualificata e ospita, oltre ai locali più di tendenza e a moderni artigiani e designers, molti degli avvenimenti e degli eventi calendarizzati, insieme al poco distante teatro romano.

Il monumento all’unità della Bulgaria fa da sfondo alle evoluzioni degli skaters nella parte nuova della città di Plovdiv © Gianluca Baronchelli

Il monumento all’unità della Bulgaria fa da sfondo alle evoluzioni degli skaters nella parte nuova della città

«L'unificazione del Principato di Bulgaria e della Rumelia orientale è un momento storico significativo che mostra ai Bulgari, ai paesi limitrofi e a tutte le "grandi potenze" che il popolo Bulgaro non solo merita la libertà, ma che ha il potere di indirizzare il suo destino e spianare arditamente la sua strada. Il Monumento dell'Unificazione a Plovdiv è stato creato nel 1985 in onore del centenario dell'Unità della Romania orientale e del Principato di Bulgaria nel 1885».

Basta questa frase, tratta da un sito istituzionale, scritta l’altro ieri; basta soffermarsi sulla scelta delle parole e sulla retorica del linguaggio per capire quanto i bulgari considerino importante ancor oggi il momento dell’unificazione successivo al congresso di Berlino. Con chiunque tu parli, hai la sensazione di parlare con una persona che all’epoca c’era, ha visto e vissuto tutto. Impressione che sfuma subito quando, invece, chiedi della vita in epoca sovietica e successiva al crollo del comunismo. Qui i pareri divergono, si fanno più vaghi, si dividono tra chi indietro non tornerebbe mai e chi si gratta la testa perplesso rilanciando la domanda “dove sta la differenza”?

Ancora oggi la Bulgaria è tra i paesi europei con il più basso reddito pro capite, il mercato libero ha portato merci, centri commerciali, beni di lusso che campeggiano su pubblicità gigantesche e ammiccanti, ma chi poi se li può permettere? La speranza di tutti è che eventi come la Capitale della Cultura possano servire a un turismo consapevole, al superamento di cliché e luoghi comuni, a una riqualificazione degli spazi urbani, a una crescita economica e sociale.

Plovdiv: il monumento al soldato Alyosha sul colle di Bunarjik © Gianluca Baronchelli

Il monumento al soldato Alyosha sul colle di Bunarjik

Non puoi andartene da Plovdiv senza passare a salutare Alyosha. Il suo nome, in realtà, sarebbe “milite ignoto sovietico”. Non un gran nome, invero, tant’è che è stato da subito ribattezzato Alyosha. È il soprannome col quale venivano chiamati i soldati dell’armata rossa, ma è anche il diminutivo di Aleksei, Alessio. Se ne cerchi l’etimologia, trovi che deriva dal greco alexein, proteggere, difendere. Alyosha è un gigante di granito che supera i dieci metri d’altezza, e sta lì, sul colle di Bunarjik, dal 1954. Non che se la sia passata sempre benissimo:

dopo la caduta del muro di Berlino più volte ha rischiato di essere smantellato, dal 1989 al 1996, e si è giunti a presidiarlo 24 ore al giorno. Ma è ancora qui. Al termine della lunga salita per arrivarci, alla base dei gradoni d’accesso, ecco l’ultimo gatto. Piccolissimo, e grigio anche lui, come Alyosha. Sul nome, direi che non ho dubbi. Lo seguo sotto un cespuglio, e ci trovo latte e cibo. C’è chi se ne occupa, dunque. Le prossime sette vite di Plovdiv dovrebbero essere assicurate.


[testi e fotografie © Gianluca Baronchelli / National Geographic Italia - 2019]

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