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Trieste multireligiosa: un itinerario tra chiese e luoghi di culto

Aggiornamento: 15 giu 2020


Il molo Audace a Trieste, di fronte a piazza Unità d’Italia © Gianluca Baronchelli

Il molo Audace, di fronte a piazza Unità d’Italia

Trieste la capisci prima, e meglio, se hai la fortuna di giungerci dal mare. Capisci prima le sue molte anime, la sua multiculturalità, la sua multireligiosità se ci arrivi come un tempo ci arrivavano marinai, mercanti e commercianti da tutto il Mediterraneo.

Scorgi subito San Giusto, abbarbicato sul suo colle. Ne intuisci le origini romane, lo sviluppo medievale. Fino alla fine del Seicento ce la dobbiamo immaginare, Trieste, chiusa, cinta da mura lungo tutta la base del colle. C’era il mandracchio, che si trovava più o meno a metà dell’attuale piazza Unità d’Italia, all’epoca piccolo porticciolo; poche migliaia di persone che vivevano di pesca e di saline, ubicate nell’attuale zona del borgo Teresiano. Lo sviluppo della città moderna inizia nel 1719 quando l’imperatore d’Austria Carlo IV dichiara la città porto franco con l’intenzione di farne il principale sbocco al mare dell’Impero. Nel giro di una sessantina d’anni, soprattutto con Maria Teresa d’Asburgo, salita al trono nel 1740 e con suo figlio Giuseppe II, la città assume l’aspetto di una vera e propria capitale: una città funzionale ai commerci dove merci, idee, tradizioni e culture si mescolano con naturalezza. È Giuseppe II, nel 1781, a emanare l’editto di tolleranza, concedendo a tutti coloro che non professano la religione cattolica (luterani, calvinisti, ortodossi) di praticare liberamente il proprio culto, mentre vengonocancellateanche moltediscriminazioni contro gli Ebrei. Ecco allora che i migliori mercanti del mediterraneo si trasferiscono a Trieste, o comunque qui aprono delle case commerciali: si formano diverse comunità che hanno la facoltà di costruire liberamente i loro luoghi di culto; ovviamente sono comunità di mercanti che si arricchiscono e che possono acquistare lotti considerevoli, edificare chiese meravigliose, e quindi dare un segno importante alla città. La cosa che più colpisce della Trieste multireligiosa è che chiese di religioni e culti differenti convivono, con una vicinanza strettissima, spesso a pochi metri l’una dall’altra. Tra un caffè, una bottega antiquaria e un buon piatto di tradizione mitteleuropea, lasciatevi rapire da architetture, colori, fedi e tradizioni a testimonianza di una storia – spesso dimenticata - di tolleranza più che di divisioni.

Trieste: Le cupole di San Nicolò dei Greci viste dal molo Audace © Gianluca Baronchelli

Le cupole di San Nicolò dei Greci viste dal molo Audace

Le vediamo già dal mare le due cupole di San Nicolò dei Greci, la prima chiesa che incontriamo, sulla Riva III Novembre, a due passi da piazza Unità d’Italia. Guarda all’orizzonte, com’è giusto e naturale per una comunità formata all’epoca in gran parte da marinai: la stessa dedicazione a San Nicolò, protettore dei naviganti, ne è la conferma. Costruita tra il 1784 e il 1787, subito dopo la separazione dagli Illirici avvenuta nel 1781, ricorda nella facciata, negli interni e nell’iconostasi la precedente chiesa vecchia di San Spiridione, rimasta alla comunità serba, demolita e riedificata secondo nuovi canoni dopo la separazione.

Durante il suo lungo soggiorno triestino lo scrittore irlandese James Joyce si recava in questa chiesa per assistere alla messa secondo il rito greco-ortodosso, affascinato dalla funzione che poi descrisse in una letteradel 4 aprile 1905 al fratello Stanislaus: “La messa greca è strana. L’altare non è visibile, ma ogni tanto il prete apre i cancelli e si fa vedere. Li apre e li richiude circa sei volte... Alla fine, dopo aver benedetto i fedeli, chiude i cancelli: un ragazzo entra, correndo giù lungo il lato della cappella con un gran vassoio pieno di pezzetti di pane. Il prete lo segue e distribuisce quei pezzetti alla calca disordinata dei fedeli. Dannatamente strano!”

L’interno di San Nicolò dei Greci a Trieste © Gianluca Baronchelli

L’interno di San Nicolò dei Greci

A pianta rettangolare, San Nicolò dei Greci è tradizionalmente suddivisa in tre spazi liturgici: il presbiterio, la navata e le due balconate. Ti cattura, appena entrato, anche grazie alle dimensioni raccolte: il pavimento in marmo a riquadri bianchi e neri, le due splendide tele di Cesare dell’Acqua

sulle pareti laterali, l’argento e le icone dell’iconostasi, gli stucchi dorati del pulpito ligneo… l’occhio comincia a vagare tra materiali, stili e colori che restituiscono un senso di ricchezza assoluto, quasi ipnotico, e, insieme, una grande armonia.

La chiesa serbo ortodossa di San Spiridione a Trieste © Gianluca Baronchelli

La chiesa serbo ortodossa di San Spiridione

Dalle rive seguiamo il Canal Grande, all’epoca strategico per i commerci e la vita economica della città, scavato come prima operazione urbanistica per fare in modo che i velieri potessero entrare direttamente in città e scaricare le merci; seguiamo i suoi palazzi, un tempo magazzini e ricche abitazioni, per raggiungere in pochi minuti San Spiridione, la chiesa serbo ortodossa. Dopo la divisione dai Greci, gli Illirici abbattono la precedente chiesa, pericolante, e nel 1861 comincia la costruzione del nuovo tempio, su modello bizantino a classica croce greca, alto quaranta metri e sormontato da una grande cupola incastonata tra quattro campanili, con coperture, originariamente in piombo, di un intenso e caratteristico azzurro. Le statue, i ricchi mosaici, i motivi floreali e i preziosi lavori d’intarsio delle tre facciate già ci introducono alla ricchezza degli interni.

L’interno di San Spiridione a Trieste © Gianluca Baronchelli

L’interno di San Spiridione

Le dimensioni sono imponenti, vi possono trovare posto milleseicento fedeli, segno delle dimensioni e della forza della comunità all’epoca: grandioso esempio di arte neobizantina, colpisce soprattutto per la ricchezza dell’iconostasi, intagliata in pietra e completamente ricoperta da ornati, con l’oro degli stucchi a dialogare con cromatismi e geometrie del pavimento in preziosi marmi di Carrara, Verona, Carso e Istria. Tra gli arredi liturgici, la splendida lampada d’argento posta davanti al matroneo, donata alla comunità di Trieste nel 1772 dal granduca Paolo, poi divenuto zar Paolo I Romanov.

La cupola di San Spiridione a Trieste © Gianluca Baronchelli

La cupola di San Spiridione

Raggiungete il centro esatto della chiesa, fermatevi, alzate lo sguardo: la cupola centrale rappresenta il Cristo Pantocratore, circondato da un cielo di stelle di un azzurro profondo, magnetico. Sotto le otto bifore che fanno vivere di luce la chiesa, il Cristo in trono circondato dai Santi. Ovunque, le caratteristiche pitture a olio che imitano il mosaico nei toni del blu.

La sinagoga di Trieste © Gianluca Baronchelli

La sinagoga

Ci occorrono sette minuti soltanto per raggiungere la Sinagoga, incastonata tra via Donizetti, via San Francesco e via Zanetti. Seconda per dimensioni, in Europa, solamente a quella di Budapest, ci lascia percepire già dal suo esterno l’importanza che la comunità ebraica aveva per la vita economica, sociale e culturale di Trieste agli inizi del ventesimo secolo. Anche la sua collocazione, così lontana dal ghetto, racconta una certa tolleranza da parte degli Asburgo nei confronti degli Ebrei.

Stili diversi si mescolano in maniera armonica, con i monumentali rosoni, le bifore, le colonne, gli intagli e le decorazioni interne che guardano idealmente a oriente, ispirati a motivi tipici dell’arte siriaca. Inaugurata nel 1912, sostituisce le quattro scuole pubbliche già esistenti, la prima delle quali sorta nel 1746, tutte situate nella zona del vecchio ghetto. Il nuovo tempio è dunque progettato per contenere almeno duemila persone, e per riunire le varie anime di una comunità che, all’epoca, contava seimila persone, mentre oggi sono circa cinquecentosessanta.

Le tavole della legge nella sinagoga di Trieste © Gianluca Baronchelli

Le tavole della legge

La sala da preghiera si divide in tre navate e guarda a un monumentale aròn con porte in rame dorato, mentre un’edicola in granito rosa sorregge le tavole della legge. Ai lati, due possenti menorah, i candelabri bronzei a sette bracci. Motivi geometrici e floreali, stelle, alberi della vita e versetti dei Salmi decorano l’imponente cupola, le volte e i pilastri in un gioco di pietra liscia e lavorata, marmi e stucchi.

L’organo nel matroneo della Sinagoga di Trieste © Gianluca Baronchelli

L’organo nel matroneo

L’aròn è cinto sui tre lati dalla grande balconata del matroneo che oggi però, per le ridotte dimensioni della comunità e per motivi di sicurezza, non è più in uso. Sempre nel matroneo, l’organo a canne con le stelle di David, a dialogare con forme e colori del rosone della facciata. Non viene risparmiata, la sinagoga di Trieste, durante la seconda guerra mondiale: devastata e trasformata in deposito di libri e opere d’arte, riesce però a salvare una parte cospicua degli arredi rituali, in gran parte eredità delle quattro scuole precedenti, celati grazie a un ingegnoso nascondiglio ricavato proprio al suo interno.

Trieste: La chiesa evangelica luterana © Gianluca Baronchelli

La chiesa evangelica luterana

Ritorniamo indietro, in direzione del mare, fino a largo Panfili, un tempo zona di saline. Purtroppo, non ci è concesso il colpo d’occhio che poteva avere il viaggiatore nel 1874, quando venne inaugurata la chiesa evangelica luterana.

La costruzione di nuovi palazzi ci nega una visione prospettica adeguata per questo edificio, semplicemente unico a Trieste, con il suo stile gotico. Ma, forse, aumenta lo stupore, quando alziamo lo sguardo su guglie, pinnacoli, archi a sesto acuto e gargouilles ricavati dalla pietra carsica delle cave di Rupingrande.

Trieste: L’interno della chiesa evangelica luterana © Gianluca Baronchelli

L’interno della chiesa evangelica luterana

L’interno sorprende meno degli esterni, anche se le grandi vetrate colorate ci regalano, soprattutto nelle prime e nelle ultime ore della giornata, splendidi giochi di luce. Da guardare con attenzione il pulpito ligneo, finemente intagliato e decorato, e il grande organo a quarantacinque canne, il primo a Trieste, all’epoca, su cui fosse possibile eseguire le composizioni di J. S. Bach: dono per una comunità, quella luterana, che all’epoca contava circa millesettecento membri, dopo una rapida espansione, posto che le prime cinque famiglie erano arrivate in città solamente con la proclamazione del porto franco nel 1719.

La cattedrale di San Giusto a Trieste © Gianluca Baronchelli

La cattedrale di San Giusto

Ho lasciato San Giusto e la sua cattedrale alla fine di questo giro: perché è il punto più distante, il meno agevole da raggiungere, con la sua salita al colle. E perché è qui che tutto ebbe inizio; è qui che, meglio che in ogni altro posto, possiamo leggere e percepire la sovrapposizione delle epoche e lo scorrere del tempo. Raggiungetela da via della cattedrale, percorrete la breve rampa finale. L’asimmetria della facciata già ci regala qualche annotazione: si tratta, infatti, della fusione di due chiese preesistenti, inglobate sotto una stessa copertura nel medioevo, tra il 1302 e il 1320, mentre i lavori all’edificio si protraggono fino alla fine del secolo. La facciata e il campanile sono arricchiti con elementi lapidei del periodo romano, e anche il maestoso portale è ricavato da un antico monumento funebre. Il campanile stesso, visibilmente troppo basso per le dimensioni della chiesa, reca i segni di un fulmine che nel 1422 lo porta all’altezza attuale. Il rosone, bellissimo, non può che essere in pietra carsica, anima di questa terra di confine.

L’abside di Santa Maria - cattedrale di San Giusto, Trieste © Gianluca Baronchelli

L’abside di Santa Maria

Risulta ancor più evidente, l’asimmetria, una volta entrati: è bellissimo seguire la corrispondenza imperfetta delle colonne, la dimensione delle cinque navate, per poi giungere alle due absidi laterali, e agli splendidi mosaici bizantini. L’abside di sinistra, corrispondente alla struttura dell’antica chiesa di Santa Maria, ci mostra una splendida raffigurazione, risalente alla fine XI, inizi XII secolo, della Madonna con bambino, in posizione frontale, affiancata dagli arcangeli Gabriele e Michele che accennano un inchino, mentre nel registro inferiore sono ritratti gli apostoli. I toni sono quelli ricchi e caldissimi dell’oro e del blu profondo, la matrice è bizantina, opera di maestranze veneziane e di Costantinopoli.

La prima abside di destra, cattedrale di San Giusto, Trieste © Gianluca Baronchelli

La prima abside di destra

Nell’abside di destra, corrispondente al sacello di San Giusto, troviamo invece uno splendido e severo Cristo, raffigurato in piedi in atteggiamento benedicente tra i martiri triestini Giusto e Servolo. Anche in questo mosaico duecentesco dominano l’oro e il blu, mentre il cilindro absidale è ingentilito da archi che poggiano su colonne con capitelli del VI secolo. Gli affreschi inferiori raffigurano scene della vita di San Giusto. Straordinario anche il soffitto a carena di nave, mentre il grande affresco medievale della navata centrale è stato rifatto a mosaico, in chiave di italianizzazione, in epoca fascista.

L’armadio reliquiario, cattedrale di San Giusto, Trieste © Gianluca Baronchelli

L’armadio reliquiario

Protetto da una possente cancellata, pregevolissima opera fabbrile, nella prima navata di sinistra è conservato l’armadio reliquiario con la misteriosa alabarda divenuta il simbolo della città. La leggenda la vuole catapultata dal cielo nell’attimo del martirio di San Sergio, tribuno della XV legioApollinare, convertitosi al cristianesimo proprio a Trieste e decapitato a Rosapha, in Siria. Il fatto che, pur essendo in metallo, l’alabarda non arrugginisca mai, ha dato adito alle più varie ipotesi e fantasie, compresa – non poteva mancare! - una composizione meteoritica e un invio da altri mondi. Ritornando sulla terra, gli studi effettuati dai dipartimenti di Scienze Chimiche e di Scienze Geografiche e Storiche dell’Università di Trieste hanno permesso di datare l’oggetto effettivamente attorno al periodo in cui visse Sergio, ma di ipotizzarne una provenienza orientale, presumibilmente indiana. La tecnica di lavorazione da un unico pezzo di ferro senza saldature, infatti, era all’epoca sconosciuta in occidente, e tipica della produzione orientale. La scuola indiana arricchiva inoltre i manufatti di fosforo, e questo spiegherebbe anche l’inossidabilità dell’alabarda.

Quel che rimane, dunque, all’inizio e alla fine di questo nostro viaggio, è il continuo mescolarsi tra Oriente e Occidente, in una città che della multiculturalità ha fatto la sua anima.

[testi e fotografie © Gianluca Baronchelli / National Geographic Italia – 2017]

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